Il sudafrica è una nazione che sta facendo dei progressi enologici davvero notevoli.
Se si pensa che fino alla fine degli anni 80, tutto il vino prodotto era destinato al solo consumo interno causa embargo commerciale dovuto all'apartheid e di qualità piuttosto bassa, si fa fatica a credere nei miglioramenti qualitativi intervenuti.
Peraltro i vitigni utilizzati sono i classici internazionali, con la sola eccezione del pinotage, uno strano incrocio tra l'elegante pinot nero e il rude e prolifico cinsault.
La stria di Idiom è quella di una famiglia friulana, i Bottega, che negli anni 50 si trasferiscono in Sudafrica. Il primogenito Alberto, dopo la laurea in fisica nucleare e una carriera in vari settori, negli anni 80 decide di investire nel vino, con l'acquisto di terreni vocati alla coltivazione della vite nella regione di Stellenbosh.
Il microclima è favorevole alla coltivazione della vite, con i freschi venti provenienti dall'oceano che tendono a ridardare la maturazione dell'uva.
Con la collaborazione dei figli e dell'enologo Giorgio Dalla Cia (altro italiano trasferitosi in Sudafrica nel 1974 per lavoro e diventatato poi distillatore dopo aver lavorato diversi anni per Merlust, uno dei marchi sudafricani più prestigiosi) inizia l'avventura nel difficile mondo enologico, con l'intenzione di produrre vini dal tipico stampo bordolese, in un periodo in cui quasi tutti in Sudafrica copiavano australiani e californiani.
Idiom produce tra gli altri questo blend di Cabernet Franc, Cabernet Sauvignon e Merlot, che ho acquistato nell'enoteca consigliatami dall'amico Paolo.
Ho un po' rischiato sull'annata, perché nove anni possono essere tanti o posso essere anche pochi, il tutto dipende da diversi fattori.
Inanzitutto dalla materia prima, ovvero se viti, clima e terreno sono ideali per il vono che si vuole crere, quindi se l'azienda ha lavorato bene in vigna e in cantina.
Poi dipende dallo stato di conservazione della bottiglia e, nel caso di un vino di importazione, la cosa diventa ancora più delicata per i diversi passaggi dal produttore al consumatore finale.
Apro quindi la bottiglia con un minimo di apprensione: il tappo sembra in buono stato, il vino è in un leggero stato riduttivo, probabilmente dovuto ai nove anni passati chiusi in bottiglia. Infatti sono sufficienti pochi minuti di ossigenazione e il vino acquista un buon vigore olfattivo e ne scaraffo una modesta quantità nel mio solito bicchiere da degustazione.
Il colore è granato ancora molto vivo e brillante, mentre si distingue per consistenza con gli archetti fitti, ravvicinati e lacrime che scendono lentissime nel bicchiere.
Avvicinandolo al naso è una bella esplosione di confettura, marasca e prugna cotta, una leggera nota vanigliata e qualche accenno di tabacco, pepe e una vena vegetale.
In bocca i tannini sono ben presenti anche se non invadenti, l'impatto con l'alcol è evidente, con quel 15% di titolo alcolometrico dichiarato, ma forse effettivi anche qualcosa in più, eppure mai preponderante; ma è soprattutto una acidità vitale ed esuberante a sorprendere per un vino di nove anni.
Il finale è commuovente per lunghezza, con un bel ritorno di frutta per via retronasale; è un vino di corpo anzi diciamo pure robusto, in senso positivo.
Nel complesso è un vino strutturato, complesso, opulento, muscoloso, massiccio, sul ring sarebbe senza dubbio un peso massimo.
Non è certo un vino facile da abbinare, ma non si sbaglia in accompagnamento alla classica bistecca di manzo appena scottata, magari accompagnata da verdure grigliate.
Ultima annotazione: lo stesso vino annata 2006 ha vinto il premio come miglior taglio bordolese del Sudafrica messo in palio dalla rivista Decanter.
Commenti
Posta un commento