Chardonnay di Edi Kante |
Edi Kante fa parte di quel ristretto gruppo di produttori friulani (insieme a Maule, Radikon, Gravner e pochi altri) che hanno ereditato un modo contadino di fare il vino, trasformandolo dalla fine degli anni ’80 in poi nella moderna realtà attuale fatta di una qualità palpabile, organica e oggettiva.
Tutto questo in un terreno unico, dove la vite combatte
con la roccia (una terra senza terra) e può beneficiare di un microclima che
risente dell'influsso del vicino mare Adriatico, che garantisce buone
escursioni termiche, e dei venti di bora che in diversi periodi dell’anno spazzano
i vigneti e che sono una garanzia naturale contro le principali malattie
fungine delle vite.
Ne escono vini senza compromessi, nudi, senza alibi, soprattutto per la coltivazione dei vitigni autoctoni come Vitoska, Terrano e Malvasia, alle quali si associano vitigni internazionali come Chardonnay e Sauvignon per consentire ai produttori l’apertura verso i redditizi mercati esteri.
Negli anni ’90 riparte l’interesse prima timido, poi
decisamente più convinto, per i vitigni autoctoni che alcuni produttori
decidono di ripensare, trasformandoli ben presto in prodotti ricercati e in
grado di riempire la bocca di un nutrito gruppo di enofighetti (per primo il
sottoscritto).
Edi Kante coltiva 15 ettari di terreno carsico, in parte in territorio italiano e in parte in territorio sloveno e non c’è da sorprendersi se si pensa che in questo fazzoletto di terra il confine è sempre stato più un fatto politico che storico-demografico.
Tra le altre cose c’è la particolarità che Prepotto,
pur essendo un comune di poche anime, conta ben quattro produttori di livello
come Kante, Skerk, Zidarich e Lupinc.
Quello che più colpisce di Kante è la bassissima resa per ettaro associata all’elevata densità delle viti, indici spesso determinanti per capire il produttore che già in vigna punta deciso verso quella qualità, aggettivo di cui fin troppo si abusa ma che spesso rimane solo sulle pagine internet dei produttori.
Accanto al lavoro in vigna, le vulcaniche idee di
Kante lo hanno portato a scavare nella roccia carsica una cantina disposta su
più piani, bella e funzionale, con temperatura e umidità costanti, dove le uve
partendo dal piano superiore diventano mostro e poi vino scendendo di livello,
per terminare l’affinamento in acciaio e nelle botti di rovere.
Ho provato lo Chardonnay da vigneti di circa 14
anni, dove 8.000 piante per ettaro lottano per la poca terra a disposizione e
da cui si ottengono non più di 600 grammi per pianta (circa la metà del
normale).
Lo Chardonnay viene affinato in barrique non nuove
per circa un anno, poi in bottiglia per altri sei mesi.
Ne deriva un prodotto che al naso si rivela
inizialmente un po’ timido, per poi aprirsi nel bicchiere a note affumicate,
frutta matura a pasta gialla, fieno e tocco minerale avvolgente.
Me lo aspettavo più complesso ma non posso dire che
mi stia deludendo.
In bocca è una vera esplosione gustativa, ed esprime
nervosismo e carattere, con tratti salmastri a districarsi tra sensazioni
vellutate e acidule, intensa progressione aromatica su un finale decisamente
lungo.
Indubbiamente un ottimo prodotto quasi artigianale.
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